Alberto Sportoletti, Presidente e Amministratore Delegato di Sernet SpA – Management Advisory, è stato intervistato da Tonia Garofano, esperta di politiche del lavoro e gestione di crisi aziendali, per la rivista bimestrale ‘Nuova Professionalità’ sul ruolo strategico e prospettico della Reindustrializzazione.

 

Negli ultimi anni, complici fattori che hanno determinato un sempre più massiccio verificarsi di casi di crisi di aziende, si è sempre più affermata la centralità del ricorso a processi reindustrializzazione per far fronte a tali crisi. Cosa rappresenta la reindustrializzazione per una situazione di crisi di azienda? Quale il suo ruolo strategico e prospettico?

In una situazione di crisi aziendale o di fisiologiche ristrutturazioni organizzative, la reindustrializzazione rappresenta un approccio win-win per tutti gli stakeholders coinvolti: l’azienda che si ristruttura, i lavoratori, le organizzazioni sindacali, il territorio, le associazioni di impresa, le aziende che subentrano, la Pubblica Amministrazione centrale e chi governa il territorio locale.Tutti hanno solo da guadagnare da un percorso di reindustrializzazione, perché esso consente di tutelare e salvaguardare due elementi fondamentali: il lavoro e gli asset produttivi. Un percorso di reindustrializzazione permette di non disperdere know how e competenze dei lavoratori, persone che sono spesso il valore aggiunto di un distretto industriale, in un territorio specifico. A guidarci nel metodo che applichiamo è un principio culturale prima che puramente economico: il lavoro è essenziale per la realizzazione della persona.Il risarcimento, a fronte della perdita di una occupazione, non può consistere esclusivamente in un indennizzo economico, il lavoro ha un valore ben più grande per la persona.

D’altro canto, salvaguardare gli asset produttivi consente di contrastare i rischi di lasciare aziende svuotate come vere e proprie cattedrali nel deserto.La reindustrializzazione, quindi, possiede elementi di convenienza anche economica per tutti:  l’azienda che si ristruttura, che di solito è una azienda di medie o grandi dimensione, spesso multinazionale, oltre ai benefici reputazionali e di clima interno, ha il vantaggio di portare  a compimento in modo più rapido il processo di efficientamento, che per aziende di queste dimensioni è ciclicamente fisiologico; i lavoratori riescono a conservare una continuità occupazionale e le proprie competenze sul mercato; i sindacati che accompagnano questo tipo di processi contribuiscono a preservare l’occupazione; la pubblica amministrazione abbatte i costi relativi ai sussidi di disoccupazione e i costi della conflittualità sociale; il territorio in cui insiste la crisi di azienda che ristruttura si assicura che gli asset restino vivi e operativi e conserva il  know-how utile anche ad attrarre nuovi investimenti.

In un momento in cui giustamente si misura la competitività e la sostenibilità dell’impresa secondo parametri ESG, la reindustrializzazione è certamente una best practice da incentivare e premiare con strumenti adeguati.

 

E quali i limiti e le potenzialità, in un contesto come quello italiano, per una struttura imprenditoriale con le caratteristiche del nostro Paese?

Innanzitutto, dobbiamo dire che, nella maggior parte dei casi, l’azienda che reindustrializza è una PMI, che deve e vuole crescere e che ha bisogno di competenze. È un’azienda che coglie l’occasione della ristrutturazione di una azienda magari appartenente a un grande gruppo industriale, spesso multinazionale, per assorbirne risorse, cultura, asset e talvolta business.

Il tessuto italiano è perciò particolarmente recettivo per progetti di reindustrializzazione, perché composto da tante piccole e medie imprese che, quando percepiscono la necessità e la voglia di crescere, possono ereditare da aziende più grandi le risorse (lavoratori, competenze e asset, etc) che possono consentirgli il salto dimensionale e qualitativo.

È d’altra parte importante che questi processi siano accompagnati oltre che da agevolazioni e incentivi adeguati, da competenze interdisciplinari messe in campo da advisor specializzati, che valutino la solidità dei soggetti investitori, la sostenibilità dei piani industriali e l’effettivo assorbimento occupazionale, onde minimizzare i rischi di speculazioni o progetti industriali senza futuro.

 

Qual è la risposta delle istituzioni, nazionali e regionali, quale il loro atteggiamento nei confronti del ruolo di tale strumento? Come valuta la disposizione inserita della Legge di Bilancio 2022, la cosiddetta norma anti-delocalizzazioni, in funzione del tema della reindustrializzazione e della responsabilità sociale di impresa?

Ho un giudizio parzialmente positivo. Partiamo proprio dagli aspetti positivi. Il provvedimento introdotto dalla Legge di Bilancio 2022 va nella giusta direzione quando incentiva l’esigenza di comunicare con trasparenza la scelta di una azienda di chiudere o ristrutturare, quando incentiva la predisposizione di piani di mitigazione sociale, anche attraverso reindustrializzazione e politiche attive del lavoro.

D’altro canto, però, è assolutamente necessario prestare attenzione a dinamiche di scoraggiamento dei processi di attrazione di investimenti.

Il legislatore deve essere impegnato nel sostegno alla reindustrializzazione, se compiuta in modo socialmente responsabile, nel supporto a chi subentra, a chi vuole investire per crescere, se presenta un piano di investimento serio e responsabile. In tal caso, fondamentale risulta il supporto al nuovo investitore nella fase di transizione, perché quasi mai è possibileassumere tutta la forza lavoro immediatamente al momento del subentro, ma è necessario un processo graduale di assorbimento in linea con l’effettivo grado di continuità produttiva perseguibile. In questo quadro, gioca un ruolo fondamentale la previsione di una Cassa integrazione Straordinaria per transizione.

E, prima ancora, ad essere accompagnato deve essere anche il processo di scouting del nuovo investitore: si tratta molto spesso di una fase non breve, durante la quale gli ammortizzatori sociali devono strutturalmente sostenere il reddito dei lavoratori con un monitoraggio delle istituzioni sull’efficacia del lavoro propedeutico in corso.

Inoltre, una volta verificata la serietà dell’investitore e la sostenibilità del suo piano industriale, deve essere previsto un veloce accesso a strumenti finanziari atti a sostenere gli investimenti necessari alla ripartenza dell’impianto, soprattutto quando si prevede una riqualificazione e/o una riconversione dello stesso. Pensiamo a quanto questo sia necessario oggi nella transizione alla mobilità elettrica del settore automotive e in generale per ciò che riguarda la transizione green verso un’economia circolare.

In estrema sintesi: più che frenare le ristrutturazioni, che sono fisiologiche, i decreti dovrebbero dunque incidere sull’attrazione e sull’incentivazione di investitori seri che possono ridare vita a ciò che, lo voglia o no la legge, morirebbe comunque.

Quale il vostro modello di applicazione dello strumento? Come procedete?

Come Sernet cerchiamo di approcciare il processo il più a monte possibile. In una situazione ideale, l’attenzione sulla condizione di una azienda interessata da tale percorso ci è richiesta prima della decisione e il conseguente annuncio della chiusura. In quella fase prospettiamo all’azienda le complessità, i risvolti normativi che si possono riscontrare se si decide di intraprendere quel cammino. Proviamo quindi ad ipotizzare soluzioni alternative alla chiusura, che possano contemplare un rilancio e l’avvio di processi di turn-around. Qualora venga confermata l’esigenza di cessare l’attività produttiva dell’impianto, definiamo con l’azienda la bozza di un Piano di mitigazione sociale fondato sulla continuità occupazionale, una strategia di negoziazione sindacale e di conduzione del progetto di reindustrializzazione attraverso un pacchetto di incentivi pubblico-privati adeguati; successivamente garantiamo assistenza operativa fino alla fine del processo di reindustrializzazione e di ricollocamento attivo del personale, con uno scouting strategico degli investitori che possano avere motivi di interesse allo stabilimento.

A seguito della individuazione dei driver attrattivi per gli eventuali subentrati, Sernet, quindi, svolge operativamente, anche attraverso partner pubblici e privati e in stretta collaborazione con gli enti governativi preposti a livello nazionale e regionale, una capillare ed estesa ricerca di potenziali soggetti reindustrializzatori anche a livello internazionale, verificandone subito la solidità industriale e finanziaria.

Sul fronte parallelo del ricollocamento attivo, dal momento in cui sono rari i casi nei quali l’investitore assorba tutta la forza lavoro, effettuiamo una attività di scouting di offerte di lavoro e selezione delle aziende del territorio alla ricerca di personale, raccogliamo informazioni sulle agevolazioni e gli incentivi per chi assume esistenti a livello nazionale, territoriale e/o messi a disposizione dall’azienda cedente e accompagniamo le singole persone in modo mirato nella fase di selezione e reintroduzione nel mercato del lavoro.

Tutto ciò definisce un approccio socialmente responsabile (Socially Responsible Restructuring – SRR), in linea con le best practice ESG.

 

In considerazione di quanto il vostro metodo palesa e dall’esperienza maturata nel corso degli anni, quale creda debba essere, in ottica di politica industriale, la strategia della quale il nostro Paese deve dotarsi per non indebolirsi in termini di competitività? Penso al famoso discorso dell’ex Presidente del Consiglio Draghi sulle cosiddette imprese zombie. Quale la riflessione sui settori, sugli investimenti?

L’impegno del Legislatore deve esser indirizzato al sostegno di chi decide di subentrare e investire, ini percorsi di reindustrializzazione in situazioni di ristrutturazione che, nell’attuale contesto produttivo, diventano sempre più fisiologiche per le aziende nelle fasi di transizione che stiamo vivendo. Per sostenere chi vuole crescere e investire, oggi, sono necessari interventi di semplificazione burocratica che diano tempi certi di messa a terra degli investimenti; è necessario rendere velocemente disponibili gli strumenti per attenuare l’onere degli investimenti, spesso effettuati da PMI; è necessario incentivare la continuità del lavoro e la responsabilità sociale delle imprese, inserendo nei rating ESG la valutazione positiva di questo approccio alle ristrutturazione vantaggioso per tutti gli stakeholder coinvolti. Negli indicatori ESG, ora molto sbilanciati sulla componente ‘E’ (Environmental), la dimensione ‘S’ (Social)  di responsabilità sociale deve avere un peso più rilevante, soprattutto laddove si concretizza in iniziative con impatto sociale così evidentemente positivo come nei progetti di Reindustrializzazione.

A livello nazionale, in ottica di attrazione di investimenti abbiamo l’occasione di sostenere e ‘cavalcare’ un trend globale di reshoring delle produzioni dal far east,. Nella individuazione dei driver competitivi per intercettare tale tendenza,  un ruolo centrale e distintivo è rivestito da elementi quali il livello e le competenze del nostro capitale umano e l’alta qualità della vita nel nostro Paese, che ci sono riconosciuti internazionalmente.

 

Nell’ambito dei tavoli deputati a gestire le crisi aziendali, quale crede possano essere i passi avanti da compiere nell’ottica di una integrazione tra gli interventi di reindustrializzazione e quelli di politica del lavoro, ai fini di fornire un valore aggiunto alla sostenibilità e al successo di un intervento di gestione di una crisi di impresa?

Ottima domanda: innanzitutto c’è un grande lavoro culturale da fare con tutte le parti sociali. In troppi accordi sindacali ancora domina il tradizionale ‘paga e chiudi’. E non se ne capisce davvero un ragionevole motivo, visto che è dimostrabile anche economicamente che un processo di ristrutturazione socialmente responsabile, condotto con un metodo corretto, conviene a tutti. Un tale cambiamento, che può essere incentivato e indirizzato soprattutto da chi ha la responsabilità di governo degli enti pubblici coinvolti, deve essere perseguito primariamente dai vertici di imprese e sindacati.

Detto questo, se nella gestione delle crisi si condivide di dare priorità agli obiettivi di continuità occupazionale e produttiva, ne consegue la necessità di favorire la permanenza delle competenze, principale elemento di attrattività per il subentrante, fino all’espletamento completo del processo di reindustrializzazione evitando che il personale chiave esca prima del subentro attratto da alte buone-uscite. In questi casi sono i lavoratori più deboli e meno competitivi sul mercato (per età, competenze o altro) a pagare le conseguenze di eventuali fuggi-fuggi che non agevolano la ripartenza dell’impianto.

Inoltre, sarebbe opportuno rafforzare una cabina di regia nazionale per l’attrazione di investimenti produttivi che sia in strutturale connessione con chi gestisce le vertenze di crisi in modo da cortocircuitare investitori e opportunità di investimento legate alla reindustrializzazione, con incentivi (anche fiscali) chiari e semplificazione burocratica. Molti paesi, anche intorno all’Italia, lo stanno facendo da tempo.