Come in un teatro post bellico dovremo rimboccarci le maniche per rimuovere le macerie socio economiche di una pandemia durata sin troppo a lungo e che si sommano alle macerie endemiche da decisioni non prese, scelte sbagliate e mala gestio.

Le luci in fondo al tunnel sono più d’una. Il 2021 non è solo l’anno delle vaccinazioni di massa , è anche l’anno in cui saremo “costretti “ a definire una strategia a 360 ° di rilancio del Paese , abilitati ad implementarla grazie ai fondi del next generation EU ed alle riforme che “l’Europa ci chiede”, ma che in realtà ci chiediamo noi stessi da chissà da quanto tempo,  ed è anche l’anno in cui saremo “costretti” a dotarci  di una struttura di governance per vigilare sulla corretta allocazione delle risorse e l’avanzamento delle riforme.

E’ l’anno nel quale tutte le transizioni di cui per tanto tempo si è solo discusso, da quella energetica a quella digitale alla recentissima sulle competenze nella pubblica amministrazione saranno avviate o vedranno significative accelerazioni. Purtroppo c’è voluta una Pandemia!

Nuove filiere come quelle legate a decarbonizzazione, risparmio energetico, economia circolare, digitalizzazione, insieme a storiche e resilienti filiere quali l’aerospazio, biomedicale, automotive, siderurgia, turismo, agroalimentare, sistema moda e sistema casa, sono ottime basi per immaginare un Paese più competitivo, prospero e si spera anche più equo.

C’è però un mentre che va gestito, un mentre che ci pone dinanzi a mali storici insoluti e molteplici situazioni di disagio come quelle di lavoratori che hanno perso il posto o sono sulla via di perderlo e di territori che hanno perso la prosperità di un tempo.

Il Ministero dello Sviluppo Economico è alle prese con 105 tavoli di crisi aperti che riguardano circa 110.000 lavoratori. Le aree di crisi industriali sono 28 Aree e abbracciano tutta la geografia del Paese da nord a sud. 456.000 i posti di lavoro persi nel 2020 per effetto della pandemia.

Riconversioni industriali e re industrializzazioni possono essere un efficace rimedio per gestire il “mentre” innestandolo nel flusso delle trasformazioni e delle transizioni

Purtroppo è una strada seguita ancora troppo poco e quel poco riguarda in genere grandi aziende multinazionali che per responsabilità sociale o per ragioni più prosaiche, allocano importanti budget per favorire la reindustrializzazione dei siti che hanno deciso di abbandonare.

In verità il panorama Italiano offre, e c’è da sottolineare purtroppo, ben più materia per progetti di reindustrializzazione. Basti pensare alle società commissariate per le quali la priorità numero un è la tutela, legittima, dei creditori mentre temi come continuità occupazionale, dispersione dei saperi, salvaguardia della micro economia del territorio, quando considerati non sono che fastidi di sottofondo. E’ che dire delle numerosissime zone industriali (ASI) dove realtà ancora vitali convivono con la desolazione di capannoni abbandonati da anni.

Sernet S.p.A., leader in Italia nei progetti di reindustrializzazione e ricollocamento attivo, ha consolidato un modello del tutto originale di gestione dei progetti di reindustrializzazione denominato Socially Responsible Restructuring, premiato come best practice dall’Organizzazione Mondiale del Lavoro.

Il punto di ancoraggio del modello sta nel rispetto per le preoccupazioni di chi aspira a ritrovare una stabilità lavorativa ed il rispetto per gli sforzi e le risorse messe in campo da tutti gli attori, aziende, istituzioni, organizzazioni sindacali. Non è solo una questione di buoni sentimenti, la cronaca ci ha offerto in più di una occasione esperienze di reindustrializzazione disastrose e da codice penale bruciano ancora sulla pelle di lavoratori e istituzioni i progetti di reindustrializzazione falliti o mai compiuti della ex Embraco a Riva di Chieri e la vicenda Blutec di Termini Imerese, solo per citare i casi più conosciuti.

 

In media un progetto di reindustrializzazione può approdare a soluzione in un arco temporale tra 12 e 24 mesi inoltre va sempre messo in conto che il progetto si possa concludere senza risultato; le variabili che entrano i giuoco sono molteplici e l’incastro per raggiungere il risultato potrebbe anche non riuscire. Sarebbe anche illusorio immaginare che la reindustrializzazione possa rappresentare la soluzione per la totalità dei lavoratori impattati. Specie quando una chiusura coinvolge centinaia di lavoratori, l’obiettivo della continuità occupazionale per tutti loro è sempre un mix tra reindustrializzazione, ricollocamento attivo presso altre aziende del territorio, stimolo all’auto imprenditorialità.

Uno stabilimento per la produzione di lavastoviglie in provincia di Torino è stato in parte reindustrializzato per la lavorazione di lamiere per il settore aereospaziale, in provincia di Bergamo uno stabilimento dove si producevano lavatrici ospita un centro per la produzione di pallet e bobine in legno per cavi; in provincia di Treviso uno stabilimento di piani cottura adesso produce carpenterie metalliche per grandi strutture architettoniche. In provincia di Caserta una fabbrica che produceva lavatrici produrrà batterie al litio.

Uno stabilimento che riparte riverbera effetti benefici anche per l’economia del territorio, dai fornitori diretti di beni e servizi ai piccoli commerci, alla ristorazione finanche al mercato immobiliare.

Perché un imprenditore dovrebbe insediarsi su un sito lasciato da un’altra impresa per di più assumendone i dipendenti? La risposta va ricercata nella combinazione tra fattori oggettivi, fattore convenienza, fattore disponibilità ed un ecosistema favorevole

Fattori oggettivi sono, le caratteristiche del sito e l’ubicazione del sito ed eventualmente la compatibilità dei macchinari non trasferiti, la localizzazione rispetto mercati di sbocco e fornitori, le competenze delle persone. Il fattore convenienza è dato dalla somma di risorse economiche e materiali messe a disposizione dall’azienda che lascia, dagli incentivi pubblici per investimenti in impianti e ricerca e sviluppo, dalle tariffe agevolate delle utilities (aziende energivore), dai bandi pubblici per la riqualificazione e la formazione del personale e non da ultimo dalla disponibilità degli ammortizzatori sociali nella fase di transizione. Nel fattore disponibilità ricomprendiamo l’impegno dell’amministrazione locale a favorire in tempi rapidi e certi gli iter autorizzativi e farsi carico di eventuali interventi infrastrutturali, la disponibilità delle organizzazioni sindacali a rimodulare il regime salariale e contrattuale. L’ecosistema è l’insieme di infrastrutture fisiche e digitali, mercato del lavoro, università e centri di ricerca, distretto fornitori e atteggiamento “business friendly” delle pubbliche amministrazioni.

I fattori oggettivi consentono all’advisor di delineare i profili dei potenziali reindustrializzatori. La ricerca è ad ampio spettro e riguarda sia aziende presenti nei territori limitrofi ed in Italia, sia aziende estere. La collaborazione con le associazioni degli imprenditori e con l’agenzia ITA/ICE è un importante canale per entrare in contatto con le aziende target che si aggiunge ai contatti direttamente intrapresi dall’advisor ed alle candidature spontanee di aziende che sono venute a conoscenza del progetto.

L’advisor opera una prima selezione delle aziende che manifestano interesse, basata su un’attività di intelligence sulla solidità del proponente e la sostenibilità del progetto industriale. Un primo filtro che serve a scremare imprenditori – speculatori, imprenditori – velleitari, imprenditori – c’è anche di peggio.

I proponenti che superano il filtro sono accompagnati dall’advisor ad interagire in primo luogo con l’azienda committente quindi con tutti gli altri soggetti pubblici. Si entra in una fase negoziale non semplice, dal risultato tutt’altro che scontato nella quale l’advisor agisce da facilitatore delle mediazioni tra tutte le parti in causa incluse le organizzazioni sindacali.

E’ un metodo che potrebbe essere adottato anche dai commissari straordinari e da amministrazioni regionali e comunali, consorzi di zone industriali per il rilancio di aree industriali dismesse associando la reindustrializzazione ad un piano strategico di rilancio quanto più condiviso con tutti gli stakeholders del territorio. Un piano che per risultare efficace deve essere sostenuto da strumenti e politiche per l’attrazione degli investimenti. L’attuale fase storica offre opportunità che vanno al di là   Next Generation EU e delle transizioni di cui si è già detto; la pandemia ha anche posto il tema di supply chain troppo lunghe che saranno certamente ristrutturate e già da un decennio assistiamo a fenomeni di reshoring prevalentemente legati ai costi della non qualità ed al time to market.

Un quadro globale dinamico in cui prevalgono gli spunti in positivo, una grande finestra di opportunità specialmente per le regioni del sud Italia che possono fare leva su un numero crescente di aziende e distretti di eccellenza che insieme ad università, politecnici, centri di ricerca producono innovazione e riescono ad affermarsi sui mercati internazionali anche per competitività.

13 Aprile 2020

Gaetano Casalaina

Vice Presidente Sernet S.p.A.