Nel primo articolo dedicato alla responsabilità sociale d’impresa abbiamo illustrato come, a partire dalla dichiarazione del Business Round Table (BRT) dello scorso 19 agosto, le grandi aziende americane stiano cambiando approccio spostandosi da un orientamento ai profitti economici, con vantaggi solo per gli azionisti, a un punto di vista più consapevole e responsabile verso tutti gli attori coinvolti, lavoratori in primis.
Cosa significa per un’azienda intraprendere un percorso verso la responsabilità sociale d’impresa?
Solo approfondendo tale domanda possiamo renderci conto nell’esperienza reale della portata della posta in gioco, quella di una nuova concezione di competitività fondata sulla sostenibilità che, di fronte a ogni decisione e progetto, si pone la domanda in modo mai scontato: quali conseguenze ha la mia azione nel breve medio e lungo termine su tutti gli stakeholders?
Responsabilità sociale d’impresa: come adottarla in azienda?
Innanzitutto è necessario uno stile di management coinvolgente ed inclusivo lontano dagli stereotipi superomistici creati molto spesso proprio nelle grandi corporation a stelle e strisce.
È necessario che lo scopo dell’agire in azienda (non solo enunciato nella mission e nella vision, ma anche nelle strategie e nelle decisioni operative quotidiane) sia all’altezza del desiderio di costruzione e di utilità per il mondo attuale e futuro che le persone hanno, così da riattivare e valorizzare credibilmente il talento di ciascuno.
Sostenere la motivazione personale al lavoro
L’educazione alla corporate social responsibility non è riducibile a formazione su tecniche e competenze hard e soft, ma implica la creazione di un ambiente che permetta e incoraggi elementi ideali che diano significato e possano sostenere la motivazione personale di fronte al lavoro. In cui la mission e la vision dell’azienda, senza pretesa di esaustività, abbraccino un orizzonte più ampio delle performance della propria impresa ma abbiano l’ardire di portare un contributo a un’opera che abbia un impatto, piccolo o grande è secondario, nel contesto culturale, sociale e ambientale in cui si opera, e in definitiva al mondo intero.
Diverse grandi aziende di successo hanno inserito questa prerogativa nel loro vision statement tirandone poi le conseguenze nelle scelte strategiche e nell’operatività quotidiana. Torna alla mente la fierezza del terzo spaccapietre medioevale che di fronte alla domanda del pellegrino che vi si imbatte e gli chiede cosa stesse facendo, risponde orgogliosamente: “Sto costruendo una cattedrale”, mentre i primi due si erano limitati a denunciare la fatica del lavoro e la necessità di mantenere la famiglia.
Ma pensiamo anche a scelte specifiche di questi giorni, spesso non economicamente convenienti nel breve periodo, ma che tendono ad affermare un valore più importante del profitto immediato, come quella del colosso Walmart che ha limitato la vendita di armi e munizioni nella propria catena di megastore.
L’impresa come ambito educativo
In secondo luogo, è necessario un nuovo approccio dentro l’operatività quotidiana dei processi aziendali che abbia un impatto imponente sulla mentalità che vige in realtà nell’organizzazione (a partire dal vertice):l’azienda, anche se spesso inconsapevolmente, è de facto un ambito educativo.
La responsabilità sociale d’impresa deve avere un impatto quindi non solo sulla sua missione, sulla visione e i valori, ma sulle priorità strategiche, le responsabilità, il capitale umano, l’organizzazione, i processi e i sistemi premianti, cioè sulla testa, i muscoli, lo scheletro e il sistema nervoso dell’organismo aziendale. E non solo nei momenti di crescita ma in tutte le inevitabili fasi della storia dell’impresa: anche in quelli di crisi e ristrutturazione, come dimostrano i casi di restructuring socialmente responsabile finalizzati a massimizzare la continuità occupazionale a fronte di chiusura di siti produttivi o sedi, tramite piani di mitigazione sociale che prevedono la reindustrializzazione e il ricollocamento attivo del personale coinvolto. Altrimenti difficilmente i valori (values) conclamati difficilmente si trasformeranno in convinzioni (beliefs) che si mutuano dall’esperienza reale quotidiana in una determinata organizzazione.
È sempre la stessa infatti la sfida che ciascuna azienda ha di fronte quotidianamente: creare un ambiente in cui tutti i collaboratori possano esprimere il meglio di sé vivendo un senso di appartenenza esentendo come propri gli obiettivi aziendali. Da questo punto di vista i tradizionali sistemi premianti, o MBO, hanno mostrato tutti i loro limiti e la loro inefficacia laddove la premialità è stata ridotta al solo aspetto economico o carrieristico. Sistemi più comprensivi dei vari fattori in gioco e degli obiettivi che impattano su tutti gli stakeholders (es. Balanced Scorecard) sono nati proprio in risposta all’inefficacia motivazionale e di gestione strategica in senso olistico delle prestazioni nelle organizzazioni più articolate, ma vanno pur sempre personalizzati e flessibilmente tarati nelle singole situazioni sulla base dell’effettivo capitale umano. L’organizzazione è per l’espressione della persona, non viceversa.
L’osmosi interno-esterno
In terzo luogo per ridestare il desiderio di costruzione e di utilità sempre presente, seppur spesso sopito o rattrappito dallo scetticismo, al fondo di ogni persona, l’azienda deve aprirsi alla realtà esterna che spesso gli stessi suoi collaboratori possono portare dentro l’ambito lavorativo. Lasciando per esempio spazio a elementi ideali e a esperienze di sostenibilità sociale che ciascuno può portare in azienda a partire dal suo vissuto ‘esterno’ e che possono introdurre una mentalità di gratuità e di motivazione che poco o tanto si estende anche al lavoro ‘profit’.
In questa direzione vanno le iniziative, già in atto in diverse realtà profit, che tendono a creare collaborazione e sostegno a realtà non profit proposte dagli stessi dipendenti. Nonché la pratica dello smart working, sempre più diffusa e verificata come positiva dal punto di vista sia per la qualità della vita e dei costi, sia soprattutto perché educa a lavorare in modo flessibile per obiettivi e non per orari.
Sostenibilità e Responsabilità sociale d’impresa: la situazione italiana
La strada della sostenibilità e della responsabilità sociale d’impresa vale solo per le grandi corporation americane e le multinazionali di dimensioni rilevanti? E nel tessuto economico italiano composto per oltre il 90% da PMI? Se per responsabilità sociale e sostenibilità intendiamo principalmente qualcosa di estrinseco al business, quindi catalizzante investimenti fondamentalmente di comunicazione e marketing, la risposta alla prima domanda sarebbe: sì, non ci riguarda. Ma se la consideriamo come un fare diversamente, in modo responsabile e sostenibile, ciò che dobbiamo fare, allora no, ci riguarda eccome e abbiamo importanti carte da giocarci.
Come documentato anche dal recente rapporto della Fondazione per la Sussidiarietà su PMI e Sviluppo e Sostenibile, il nostro Paese ha infatti una sensibilità e una pratica di solidarietà declinata dalle realtà imprenditoriali e da tanti corpi intermedi che merita di essere considerata, conosciuta a fondo e valorizzata. Con buona pace di chi, per scimmiottare altri modelli esterofili, la considerava un limite culturale della nostra economia.
Piccolo è bello se può e vuole crescere e aprirsi alle sfide globali, quando trova una proposizione di valore utile, distintiva e sostenibile nel tempo, a partire dalla domanda fondamentale: a chi (bisogno, cliente, mercato) serve ciò che faccio e come posso fare per servirlo sempre meglio? Per reggere nel tempo, più che la dimensione (a differenza del passato, nell’epoca di cambiamento a velocità cibernetica che viviamo, ciò che è grande può essere ancor più fragile), oggi vale il concetto di solidità. Che è fatta di continua innovazione e velocità di adattamento, fidelizzazione dei talenti, conoscenza delle tecnologie e apertura al mondo. Puntando a posizionarsi, per le peculiarità storiche e culturali italiane, nei segmenti a maggior valore aggiunto delle catene del valore e alle opportunità che si aprono grazie all’innovazione tecnologica e alla stessa tendenza alla sostenibilità: pensiamo alle opportunità per le PMI che si stanno aprendo grazie agli investimenti nell’economia circolare di grossi player, come l’ENI in Italia.
Nel cosiddetto VUCA (Variable, Uncertain, Complex, Ambiguous) world, le grandi corporation hanno e avranno sempre più bisogno di partner esterni agili, veloci e capaci di lavorare in modo fluido e integrato per cogliere opportunità di mercato che andrebbero perse se vincolate alla sola crescita organica interna. Una simbiosi tra grande e piccolo che si esplicita nel trend sempre più marcato e obbligato alla Open Innovation. Secondo una logica di fatto sussidiaria, che fa sempre più leva anche su realtà del terzo settore e imprese sociali, ove i confini tra profit e non profit avranno sempre meno senso e le differenze delle buone pratiche saranno sempre più sfumate nel comune obiettivo della sostenibilità economica, sociale e ambientale.